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Pietro Ghilarducci

Fotografia del giornalista Pietro Ghilarducci
Anno di nascita: 
1932
Anno di morte: 
2010

 

Pietro Ghilarducci è stato un giornalista e scrittore italiano. Laureato in Scienze politiche, lavora come giornalista al Corriere Lombardo, poi viene assunto alla casa editrice Garzanti come addetto all’ufficio stampa e pubblicità. Collabora anche alla redazione della prima Garzantina, curando in particolare la revisione delle singole voci. Trasferitosi a Londra, ha collaborato ai servizi esteri della BBC, scrivendo contemporaneamente per settimanali culturali e d’attualità italiani, quali Il Mondo, Il Punto (al quale collaborava anche il Cancelliere dello Scacchiere laburista Denis Healey), Settimo Giorno, La Domenica del Corriere e La Fiera Letteraria. Rientrato in Italia, è assunto dalla casa editrice Rizzoli, per cui collabora oltre venti anni come editor, lettore, traduttore, re- visore di testi tradotti e compilatore di risvolti. Sempre per la Rizzoli, pubblica i romanzi "La moglie giovane" (premio L’Inedito), "L’ombra degli ippocastani", "Un atto d’amore", "Il bivio" (premio Vallombrosa), "La ristrutturazione", "La città dell’anima". Ha collaborato anche con La Repubblica, con articoli di cultura e interviste (fra cui quelle a Carlo Bo, Indro Montanelli ed altri esponenti della cultura italiana). Ha fatto parte della giuria del Premio Viareggio. Muore a 78 anni a Milano.

Racconto apparso sul quotidiano «Il Tirreno» il 9 settembre 2001 “La grande dimora del Marajà Villa Argentina” (estratto)
Villa Argentina ha sempre rappresentato, per me, un sogno proibito; forse perché a pochi passi da lei sono nato, e ancor più vicino ho sempre abitato, se non concretamente, in spirito senz’altro. […...]
Nessun luogo mi è stato altrettanto familiare della villa che sta all’angolo di casa mia. […...] sempre la villa esercitava su di me un richiamo frammisto di mistero, seduzione, e al contempo d’irraggiungibilità […...] Soprattutto in certe ore, i riflessi che il sole accendeva sulle piastrellature e le ceramiche delle facciate, esaltavano i verdi, i gialli, i blu, i lilla, gli ocra, mi accecavano con i loro barbagli, accrescendo, ai miei occhi, la preziosità e di conseguenza l’inaccessibilità di quella costruzione. Particolarmente nell’ora del tramonto, quando il fulvo cupreo dei raggi sopra i pini incendiava vetrate di porte, finestre e logge, e un tripudio d’ori si perdeva in una tiepida, azzurrina, dolcissima infinità, sentivo che quella costruzione apparteneva più alla sfera dei mondi iperurani piuttosto che a quello, assai più modesto, dei caseggiati che le sorgevano intorno. Emanava un incanto tutto particolare, intriso di esotismo e orientalità, e per me, data la mia età, anche di enigmaticità, e segretezza. […...]
Cresciuto ancora, assistei per la prima volta all’aprirsi del cancello principale, e al passaggio della nera berlina che mi sfilò via davanti rapida, silenziosa, senza che avvertissi il rumore del motore. A sciogliere, però quest’ultimo dilemma, provvide una donna che insieme a me, e una sua amica, aveva assistito all’evento. «Sono i conti di Sant’Elia», bisbigliò ai nostri orecchi, in tono di soggezione e di rispetto, quasi scaturissero dal possesso della ricchezza e dall’appartenenza a un ceto superiore. […...]
Speranza di poterla visitare un giorno, la villa, come avevo sempre desiderato, ora che avevo saputo chi erano i proprietari, non ne avevo più alcuna. Troppa mi appariva la distanza fra me e loro. La loro riservatezza, a me undicenne, sembrava inscalfibile. E invece la possibilità si presentò sotto le spoglie di un giovane militare germanico, appartenente al comando tedesco che dopo gli avvenimenti del 1943 si era istallato nella villa. Incuriosito, e poi intenerito, dal mio continuo osservare, con occhi fruganti, muri, porte finestroni e terrazze, un giorno si avvicinò a me e a mia zia e le chiese il motivo del mio interesse. Alla sua risposta c’invitò a entrare e ci condusse all’interno dell’edificio. Non l’avevo immaginato tanto grande. Il numero delle stanze era, per me, incredibile. Da perdervisi. E, senza la nostra guida, ciò sarebbe senz’altro accaduto, perché anche mia zia stentava a orizzontarsi fra ballatoi, corridoi e corridoietti, disimpegni, scale principali e secondarie.
La grande terrazza su via Vespucci mi abbacinò, e altrettanto fece la corrispondente veranda sottostante, con le luminose finestre ad arco. Ma un’autentica sorpresa fu, nel grande salone decorato da affreschi, pitture parietali raffiguranti alberi della felicità orientaleggianti alternandosi a composizioni floreali sorrette da putti, e specchiere dorate, soffitti intarsiati di stucchi, ori e blu, il grande dipinto di Giuseppe Biasi, raffigurante un principesco matrimonio persiano, con elefanti, baldacchini, vesti dorate, monili preziosi, veli e turbanti. Mi sentii proiettato in piena atmosfera salgariana, in quei paesi dove Salgari aveva ambientato la sua epopea dei pirati, una delle mie letture preferite in quel periodo.
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